Mommyland - (02/05/14)


CANALE:

Torbellamonaca 12/7/2003 “MOMMYLAND” di Luciana Grifi, regia Luciano Melchionna, con: Lina Bernardi, Annamaria Loliva. Aiuto regia Sandro Giordano, disegno luci Camilla Piccioni, scene Marzia Belei e Luciano Melchionna, costumi Milla Santi, musiche a cura di Riccardo Regoli, fonico Sara Pascale, direttore di scena Andrea Sorbera, organizzazione Barbara Gai Barbieri, ufficio stampa Marzia Spanu. La dualità intrinseca ad ogni essere umano consente, secondo gli psicologi, di scindere il Sé in due ruoli. L’esempio più vistoso di questa sci9ssione è riscontrabile nella donna-madre che ha la possibilità di scindersi in due entità pur conservando il senso profondo della sua unità. Nel momento del parto la madre si separa materialmente dal figlio ma in taluni casi continua a conservarlo psicologicamente dentro di sé. Potrebbe essere questo il meccanismo inconscio che è alla base delle storie raccontate in Mommyland, di cui sono protagoniste due madri. L’una – M.me Verlaine, madre del poeta Paul Verlaine – ha conservato per decenni dentro  boccali di vetro colmi di alcol i feti dei quattro figlioletti abortiti prima della nascita di Paul, trattenendoli presso di sé come per tutta la vita cercò di trattenere Paul. L’altra – una donna dei nostri tempi modesta ed incolta – vuole imporre ad ogni costo alla figlia ribelle la sua limitata visione della vita impedendole ogni tentativo di autonomia e di ricerca di sé. Ambedue le madri, prigioniere di una infelicità venata di toni grotteschi e surreali, null’altro possono insegnare ai figli se non a reiterare un destino infelice. Note di regia: da un salotto borghese del 1869 alla cucina di un appartamento di periferia dei giorni nostri, da una conversazione apparentemente leggera e superficiale ad un monologo straziante senza però alcuno sterile compiacimento, l’autrice, con una scrittura ironica e disperata, sintetica ed aderente alle emozioni, mi ha portato per mano in uno strano lunapark: un museo delle cere squarciato dall’impennata di violente montagne russe. Una terra gestita da mamme che hanno, per questo, rinunciato ad essere donne: mamme-vittime di se stesse, della propria educazione e della folle rivalsa di un figlio che non vuol essere inglobato nuovamente nel ventre materno o mamme-carnefici a fin di bene, sensibili ma ottuse per pura sopravvivenza, schiave di una vita “che non si può scegliere a fiori o a colori come quando vai a comprarti un vestito”. Una terra dove l’amore raggiunge il suo eccesso e scatena sofferenza profonda, si lascia soffocare e soffoca. Una terra dove lo spettatore sorridendo o trattenendo le lacrime è costretto comunque a pensare... “...credo che ognuno di noi, anche se lo ignora, possiede una luce “dentro”...una luce che deve essere accesa...e se riesce ad accenderla, se ci riesce...quella luce illumina tutte le cose intorno...se questo non accade, la realtà rimane grigia...un’ombra di quello che avrebbe potuto essere...e noi vediamo la vita come semiciechi...”.Riprese Ulisse Benedetti per l’archivio dell’Ass. Cult. Beat 72

Torbellamonaca 12/7/2003 “MOMMYLAND” di Luciana Grifi, regia Luciano Melchionna, con: Lina Bernardi, Annamaria Loliva. Aiuto regia Sandro Giordano, disegno luci Camilla Piccioni, scene Marzia Belei e Luciano Melchionna, costumi Milla Santi, musiche a cura di Riccardo Regoli, fonico Sara Pascale, direttore di scena Andrea Sorbera, organizzazione Barbara Gai Barbieri, ufficio stampa Marzia Spanu. La dualità intrinseca ad ogni essere umano consente, secondo gli psicologi, di scindere il Sé in due ruoli. L’esempio più vistoso di questa sci9ssione è riscontrabile nella donna-madre che ha la possibilità di scindersi in due entità pur conservando il senso profondo della sua unità. Nel momento del parto la madre si separa materialmente dal figlio ma in taluni casi continua a conservarlo psicologicamente dentro di sé. Potrebbe essere questo il meccanismo inconscio che è alla base delle storie raccontate in Mommyland, di cui sono protagoniste due madri. L’una – M.me Verlaine, madre del poeta Paul Verlaine – ha conservato per decenni dentro  boccali di vetro colmi di alcol i feti dei quattro figlioletti abortiti prima della nascita di Paul, trattenendoli presso di sé come per tutta la vita cercò di trattenere Paul. L’altra – una donna dei nostri tempi modesta ed incolta – vuole imporre ad ogni costo alla figlia ribelle la sua limitata visione della vita impedendole ogni tentativo di autonomia e di ricerca di sé. Ambedue le madri, prigioniere di una infelicità venata di toni grotteschi e surreali, null’altro possono insegnare ai figli se non a reiterare un destino infelice. Note di regia: da un salotto borghese del 1869 alla cucina di un appartamento di periferia dei giorni nostri, da una conversazione apparentemente leggera e superficiale ad un monologo straziante senza però alcuno sterile compiacimento, l’autrice, con una scrittura ironica e disperata, sintetica ed aderente alle emozioni, mi ha portato per mano in uno strano lunapark: un museo delle cere squarciato dall’impennata di violente montagne russe. Una terra gestita da mamme che hanno, per questo, rinunciato ad essere donne: mamme-vittime di se stesse, della propria educazione e della folle rivalsa di un figlio che non vuol essere inglobato nuovamente nel ventre materno o mamme-carnefici a fin di bene, sensibili ma ottuse per pura sopravvivenza, schiave di una vita “che non si può scegliere a fiori o a colori come quando vai a comprarti un vestito”. Una terra dove l’amore raggiunge il suo eccesso e scatena sofferenza profonda, si lascia soffocare e soffoca. Una terra dove lo spettatore sorridendo o trattenendo le lacrime è costretto comunque a pensare... “...credo che ognuno di noi, anche se lo ignora, possiede una luce “dentro”...una luce che deve essere accesa...e se riesce ad accenderla, se ci riesce...quella luce illumina tutte le cose intorno...se questo non accade, la realtà rimane grigia...un’ombra di quello che avrebbe potuto essere...e noi vediamo la vita come semiciechi...”.Riprese Ulisse Benedetti per l’archivio dell’Ass. Cult. Beat 72
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