Nord-nordovest - (18/05/16)


CANALE:
Teatro dell’Orologio 8 Maggio 2016
NORD-NORDOVEST
Meridiano Zero
Regia: Marco Sanna
con: Felice Montervino, Marco Sanna, Marialuisa Usai, Francesca Ventriglia.
Scene e costumi: Sabrina Cuccu
Luci: Valerio Contini
Ambienti sonori: Luca Spanu
Foto di scena: Alec Cani
Produzione Sardegna Teatro
“...Se si possono insegnare tecniche della tradizione, al di là del contesto che le contiene e le determina, è perché la tradizione è morta e la possibilità di apprenderle non è che il certificato dell’avvenuta sepoltura.
La tradizione, morta nella quotidianità del contemporaneo ma di cui si conserva memoria, ci obbliga a una elaborazione del lutto conseguente la perdita che è oggi il solo spazio che la tradizione pu permettersi. Non è detto che sia male.”
G.L.Ferretti
Nord-NordOvest inizia da qui, da un concetto che ti gira nella testa da qualche tempo, dalla posizione che occupi nel mondo e di conseguenza dentro le cose dell'arte. Inizia dalle parole di chi ha influenzato il tuo modo di essere e di stare nel mondo e quindi nell'arte.
Nasce, questo lavoro, dalla volontà di raccontare uno stato di attesa, quello in cui si aspetta di essere dimenticati. Si parte da un dato di fatto: la morte della tradizione.
La tradizione è morta ma viene continuamente chiamata in causa, in una sorta di accanimento terapeutico, impedendogli di morire davvero. Ogni volta che ci si allontana dal conosciuto, si ha immediatamente bisogno di tornare indietro, raccogliere le forze, consolarsi, per poi di nuovo allontanarsi, e così siamo legati ad un eterno elastico, che regge l'impossibile, che non riesce a spezzarsi.

io non ci sto!
E pensi che questo cambierà le cose?
No le cose cambiano a prescindere.
Cosa vuol dire non riuscire a morire? Vuol dire attraversare molto più tempo di quel che ci è dato vivere, vuol dire non rispettare i tempi e le stagioni, togliersi fuori incautamente dalla legge di natura. Le cose diventano così qualcosa di estremamente lontano e diverso, rispetto a ci che erano quando quando sono nate, la stessa differenza che passa tra Cristo e chi oggi si fa detentore della sua parola.
Ci che dovrebbe essere fluire del sangue, continuità di gesto, di pensiero, di azione, diventa un astratto ricordo, un abito da mettere o cambiare a seconda dell'occasione, una citazione da fare quando si è a corto di argomenti.
Tradizione è un concetto metastorico e dinamico, una forza ordinatrice in funzione di principi trascendenti. Una forza che agisce lungo le generazioni, attraverso istituzioni, leggi e ordinamenti. Insomma qualcosa con cui ti trovi a fare i conti pur non sapendo più bene dove ne sia l'origine. Qualcosa che permane nonostante l'incedere del tempo e dei fatti. qualcosa che ti trovi addosso, in segni, modi di pensare e di agire, che si voglia o no, malgrado tutto.
Sulla scena quattro entità (personaggi?) che incarnano la tradizione e il suo divenire. Condividono lo stesso spazio. Vivono li da sempre e aspettano di non esserci più. Ogni loro parola trasuda di un passato in cui la loro esistenza e il loro ruolo nel mondo avevano ancora un senso. S'interrogano su cosa sia successo nel frattempo, sulle colpe che hanno avuto e hanno tutt'ora, ammazzano il tempo, in attesa. Ogni tentativo di rompere gli schemi risulta inutile, non fa altro che aggiungere parole e gesti su un modello obsoleto, senza cambiarne la sostanza.

senza questa maledetta memoria sarebbe finita qui
nessuno potrebbe più ricordarci
saremo finalmente liberi
Intorno a un grande tavolo i quattro consumano il loro pasto, un brodo insapore, una minestra riscaldata che li tiene in vita loro malgrado. I tempi si allungano, diventano estenuanti, il loro conversare si fa a tratti collerico, altre volte oscuro quasi ci sia un codice interno da rispettare, che lascia estraneo ogni possibile spettatore.
Tutto intorno è decadenza. Lo spazio che li contiene allo stesso tempo li respinge, asettico, in netto contrasto con gli arredi e gli abiti d'annata.
Questo è il luogo della muffa, la scatola da cui tutti fuggono e nessuno se ne va, che scricchiola e non crolla, che fa acqua da tutte le parti.
Una frase di troppo, una disquisizione sul cibo e la sua preparazione, fa si che il rituale del pasto si spezzi. E' così d'altronde che finiscono in tragedia molte cene di Natale.
Inizia un gioco al massacro, dove ognuno sarà costretto a recitare la propria parte davanti agli altri. Nel salotto trasformato in una piccola platea i quattro improvvisano un sadico teatrino, un gioco dei mimi, ma non ci sono da indovinare i titoli di film famosi, no, la posta in gioco è la propria identità.

Chi sono?
Un guerriero
uno zoppo.
Uno spettro.
Quattro scene, quattro personaggi, che recitano la loro parte, prendendo in prestito da un misterioso repertorio, cercando di stupire e commuovere, provando insomma a definirsi in qualche maniera, facendo indovinare alla platea chi sono, da dove vengono, cosa sono capaci di fare. Il risultato è un disperato affannarsi intorno a parole e gesti che non aggiungeranno nulla alla comprensione del loro presente, ma anzi getterà nuove ombre sul loro passato rendendo più incerto il loro futuro.

Tu quando dici amen che cosa intendi?
Non lo so, magari tutto ci che ti ho detto. O niente, quasi niente, il più delle volte, solo lasciarmi le cose alle spalle. Fosse possibile.

La loro è una ricerca disperata e impossibile - che si risolve in vuota retorica - della parola vera che si ponga fuori dalla persona in una cristallina purezza - e questa purezza è il difetto della vita, il desiderio continuo di non bastarsi. La fine li trova impreparati davanti alla loro immagine riflessa in un grande specchio, che ha guardato la scena fino a quel momento. Neanche la loro immagine gli risponde più, e il riflesso nello specchio prende vita propria anticipa i gesti o si prende gioco di loro.
Lo specchio diventa tubo catodico, da dove la raffigurazione distorta dei quattro irrompe coloratissima a portare il nuovo verbo, il vento nuovo, che soffia da Nord-NordOvest e al quale bisogna adeguarsi per non morire, per continuare a trascinarsi in un'idea di vita lontanissima dalle loro vere aspirazioni.
L'elaborazione del lutto non avviene fino a quando non c'è l'accettazione, solo allora si pu riprendere a camminare e scegliere strade nuove. Fino ad allora si continuerà a vivere nel passato, a rispettare vecchi modelli, incapaci di crearne di nuovi, per troppo rispetto, per mancanza d'iniziativa, per superstizione.
Ci hanno detto che non pu esserci futuro senza conoscere il passato, per questo continuiamo a ripeterci, nei secoli. Per questo è ormai la nostra situazione storica ad essere metafora del teatro e non il contrario.
Teatro dell’Orologio 8 Maggio 2016
NORD-NORDOVEST
Meridiano Zero
Regia: Marco Sanna
con: Felice Montervino, Marco Sanna, Marialuisa Usai, Francesca Ventriglia.
Scene e costumi: Sabrina Cuccu
Luci: Valerio Contini
Ambienti sonori: Luca Spanu
Foto di scena: Alec Cani
Produzione Sardegna Teatro
“...Se si possono insegnare tecniche della tradizione, al di là del contesto che le contiene e le determina, è perché la tradizione è morta e la possibilità di apprenderle non è che il certificato dell’avvenuta sepoltura.
La tradizione, morta nella quotidianità del contemporaneo ma di cui si conserva memoria, ci obbliga a una elaborazione del lutto conseguente la perdita che è oggi il solo spazio che la tradizione pu permettersi. Non è detto che sia male.”
G.L.Ferretti
Nord-NordOvest inizia da qui, da un concetto che ti gira nella testa da qualche tempo, dalla posizione che occupi nel mondo e di conseguenza dentro le cose dell'arte. Inizia dalle parole di chi ha influenzato il tuo modo di essere e di stare nel mondo e quindi nell'arte.
Nasce, questo lavoro, dalla volontà di raccontare uno stato di attesa, quello in cui si aspetta di essere dimenticati. Si parte da un dato di fatto: la morte della tradizione.
La tradizione è morta ma viene continuamente chiamata in causa, in una sorta di accanimento terapeutico, impedendogli di morire davvero. Ogni volta che ci si allontana dal conosciuto, si ha immediatamente bisogno di tornare indietro, raccogliere le forze, consolarsi, per poi di nuovo allontanarsi, e così siamo legati ad un eterno elastico, che regge l'impossibile, che non riesce a spezzarsi.

io non ci sto!
E pensi che questo cambierà le cose?
No le cose cambiano a prescindere.
Cosa vuol dire non riuscire a morire? Vuol dire attraversare molto più tempo di quel che ci è dato vivere, vuol dire non rispettare i tempi e le stagioni, togliersi fuori incautamente dalla legge di natura. Le cose diventano così qualcosa di estremamente lontano e diverso, rispetto a ci che erano quando quando sono nate, la stessa differenza che passa tra Cristo e chi oggi si fa detentore della sua parola.
Ci che dovrebbe essere fluire del sangue, continuità di gesto, di pensiero, di azione, diventa un astratto ricordo, un abito da mettere o cambiare a seconda dell'occasione, una citazione da fare quando si è a corto di argomenti.
Tradizione è un concetto metastorico e dinamico, una forza ordinatrice in funzione di principi trascendenti. Una forza che agisce lungo le generazioni, attraverso istituzioni, leggi e ordinamenti. Insomma qualcosa con cui ti trovi a fare i conti pur non sapendo più bene dove ne sia l'origine. Qualcosa che permane nonostante l'incedere del tempo e dei fatti. qualcosa che ti trovi addosso, in segni, modi di pensare e di agire, che si voglia o no, malgrado tutto.
Sulla scena quattro entità (personaggi?) che incarnano la tradizione e il suo divenire. Condividono lo stesso spazio. Vivono li da sempre e aspettano di non esserci più. Ogni loro parola trasuda di un passato in cui la loro esistenza e il loro ruolo nel mondo avevano ancora un senso. S'interrogano su cosa sia successo nel frattempo, sulle colpe che hanno avuto e hanno tutt'ora, ammazzano il tempo, in attesa. Ogni tentativo di rompere gli schemi risulta inutile, non fa altro che aggiungere parole e gesti su un modello obsoleto, senza cambiarne la sostanza.

senza questa maledetta memoria sarebbe finita qui
nessuno potrebbe più ricordarci
saremo finalmente liberi
Intorno a un grande tavolo i quattro consumano il loro pasto, un brodo insapore, una minestra riscaldata che li tiene in vita loro malgrado. I tempi si allungano, diventano estenuanti, il loro conversare si fa a tratti collerico, altre volte oscuro quasi ci sia un codice interno da rispettare, che lascia estraneo ogni possibile spettatore.
Tutto intorno è decadenza. Lo spazio che li contiene allo stesso tempo li respinge, asettico, in netto contrasto con gli arredi e gli abiti d'annata.
Questo è il luogo della muffa, la scatola da cui tutti fuggono e nessuno se ne va, che scricchiola e non crolla, che fa acqua da tutte le parti.
Una frase di troppo, una disquisizione sul cibo e la sua preparazione, fa si che il rituale del pasto si spezzi. E' così d'altronde che finiscono in tragedia molte cene di Natale.
Inizia un gioco al massacro, dove ognuno sarà costretto a recitare la propria parte davanti agli altri. Nel salotto trasformato in una piccola platea i quattro improvvisano un sadico teatrino, un gioco dei mimi, ma non ci sono da indovinare i titoli di film famosi, no, la posta in gioco è la propria identità.

Chi sono?
Un guerriero
uno zoppo.
Uno spettro.
Quattro scene, quattro personaggi, che recitano la loro parte, prendendo in prestito da un misterioso repertorio, cercando di stupire e commuovere, provando insomma a definirsi in qualche maniera, facendo indovinare alla platea chi sono, da dove vengono, cosa sono capaci di fare. Il risultato è un disperato affannarsi intorno a parole e gesti che non aggiungeranno nulla alla comprensione del loro presente, ma anzi getterà nuove ombre sul loro passato rendendo più incerto il loro futuro.

Tu quando dici amen che cosa intendi?
Non lo so, magari tutto ci che ti ho detto. O niente, quasi niente, il più delle volte, solo lasciarmi le cose alle spalle. Fosse possibile.

La loro è una ricerca disperata e impossibile - che si risolve in vuota retorica - della parola vera che si ponga fuori dalla persona in una cristallina purezza - e questa purezza è il difetto della vita, il desiderio continuo di non bastarsi. La fine li trova impreparati davanti alla loro immagine riflessa in un grande specchio, che ha guardato la scena fino a quel momento. Neanche la loro immagine gli risponde più, e il riflesso nello specchio prende vita propria anticipa i gesti o si prende gioco di loro.
Lo specchio diventa tubo catodico, da dove la raffigurazione distorta dei quattro irrompe coloratissima a portare il nuovo verbo, il vento nuovo, che soffia da Nord-NordOvest e al quale bisogna adeguarsi per non morire, per continuare a trascinarsi in un'idea di vita lontanissima dalle loro vere aspirazioni.
L'elaborazione del lutto non avviene fino a quando non c'è l'accettazione, solo allora si pu riprendere a camminare e scegliere strade nuove. Fino ad allora si continuerà a vivere nel passato, a rispettare vecchi modelli, incapaci di crearne di nuovi, per troppo rispetto, per mancanza d'iniziativa, per superstizione.
Ci hanno detto che non pu esserci futuro senza conoscere il passato, per questo continuiamo a ripeterci, nei secoli. Per questo è ormai la nostra situazione storica ad essere metafora del teatro e non il contrario.
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